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DeDominicis - Distanze sociali1.jpg

(foto ricordo). Seconda soluzione d'immortalità: l'universo è immobile" (1972)

"Distanziamento sociale", in un parcheggio di Las Vegas, 2020

Uno spettro si aggira per il mondo - lo spettro del capitalismo.

"Per me non c'è passato o futuro in arte. Se un'opera d'arte non può vivere sempre nel presente, non deve essere presa in considerazione."

 

Pablo Picasso

 

Parafrasando Duchamp[1], non tutte le opere di un grande artista sono capolavori. In quest'ottica possiamo osservare che la maggior parte delle opere d'arte sono esperimenti. Potremmo anche dire che la maggior parte delle opere d'arte compongono una lunga storia di fallimenti. Una costellazione di fallimenti, e ogni tanto qua e là una vera stella, che brilla da lontano, eterna, come un capolavoro.

Anche la storia personale di ogni essere umano è una storia di continui errori e fallimenti, che ci portano a crescere, a maturare, a imparare.

 

Per la 36. Biennale di Venezia del 1972, Gino De Dominicis presenta un'intera sala che ospita opere come "Gemelli" (1972), "D'IO" (1971), "Il tempo, lo sbaglio, lo spazio" (1969), e altre ancora, ma una in particolare è ciò che io definirei capolavoro: un'opera intitolata "Seconda soluzione d'immortalità: l'universo è immobile".

Grazie alle testimonianze di Laura Cherubini e Italo Tomassoni - come riporta Gabriele Guercio, in un volume dedicato a la Seconda soluzione (L'arte non evolve - L'universo immobile di Gino De Dominicis) - , sappiamo che questa sala voleva essere una sorta di compendio del lavoro svolto dall'artista fino ad allora.

La Seconda soluzione rimane a mio modesto parere una delle opere più affascinanti di sempre, perché offre svariati spunti di riflessione.

 

Appositamente per questa occasione, De Dominicis concepisce una versione[2] del tutto inedita, e che per molto tempo sarà oggetto di discussione e critica.

Questa versione dell'opera è strutturata in questo modo:

al centro della composizione, seduto in un angolo della sala, abbiamo il giovane affetto dalla sindrome di Down, all'anagrafe Paolo Rosa.

Davanti a lui abbiamo tre oggetti, tre opere di Gino De Dominicis, la pietra, il cui titolo è "Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra" (1969), la palla di gomma, il cui titolo è "Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell'attimo immediatamente precedente il rimbalzo" (1968 e 1969), e infine abbiamo un perimetro dipinto di bianco per terra, che delimita uno spazio nel quale c'è un cubo, il "Cubo invisibile" (1967).

Come possiamo notare dalle date di creazione di ogni opera, esse sono tutte precedenti alla Biennale, sono tutte opere che De Dominicis aveva già esposto in altri momenti, in altri spazi, ma che qui, in questa inedita composizione, acquistano più forza.

 

Per entrare nel merito della Seconda soluzione bisogna conoscere la "Lettera sull'immortalità" (1970)[3], dove De Dominicis elabora al meglio le sue idee.

In questa lettera, che possiamo definire un'opera a tutti gli effetti, De Dominicis avanza una ipotesi: affinché ogni cosa esista veramente dovrebbe essere eterna. Ogni cosa, come per esempio, un bicchiere, un uomo o una gallina, dovrebbero fermarsi nel tempo e divenire immortali.

De Dominicis afferma che solo così ogni cosa non sarebbe più la verifica di certe possibilità di quella cosa - la verifica che ovviamente ne fa la Natura - , ma diverrebbero veramente cose.

Per dirla in modo più semplice, per De Dominicis tutto esisterebbe davvero solo se tutto fosse eterno, cioè immortale, in questo modo ogni cosa smetterebbe di essere un esperimento della Natura e "sarebbe" davvero. Per De Dominicis è dunque veramente esistente solo ciò che non viene consumato dal tempo. E' solo dunque in questo modo che possiamo comprendere al meglio i tre oggetti che stanno dinanzi a Paolo Rosa. I tre oggetti infatti, sono a tutti gli effetti degli escamotage che hanno il fine di portare quelle determinate cose, ovvero, la pietra, la palla e il cubo, in una determinata situazione atemporale. Infatti, questi oggetti e anche Paolo Rosa sono immobili e in un sistema chiuso, sono come dei fermi immagini tra un momento precedente e un momento successivo. Ciascuna delle componenti della Seconda soluzione innesca una discontinuità che mette in discussione la stabilità tra immobilità e durata, causazione e casualità, essere o non essere. Una indeterminatezza che ci persuade a pensare che ciascuna di esse alluda ad un tempo-spazio autonomo.

In questo senso può essere dunque compresa la parte del titolo dell'opera che dice "l'universo è immobile".

 

Ma Paolo Rosa in che modo si compenetra nell'opera?

Innanzi tutto, bisogna capire che Rosa non sta lì seduto a guardare il pubblico che guarda l'opera, ma bensì osserva i tre oggetti, e in un certo senso i tre oggetti si "mostrano" a lui. In questo senso perciò la Seconda soluzione può essere intesa come un sistema chiuso.

Bisogna inoltre sapere che De Dominicis ha proprio scelto il giovane perché affetto da sindrome di Down, perché come ci insegna la medicina, ma soprattutto i genitori di persone affette da questa sindrome, i Down hanno difficoltà con il pensiero astratto[4]. E cosa c'è di più astratto del tempo?

Ecco dunque che proprio per questo motivo, la figura di Paolo Rosa diventa chiave in questa inedita composizione della Biennale.

Paolo Rosa in altri termini è qualcuno che "vede" e percepisce in maniera altra rispetto al comune.[5] Rosa non percepisce il tempo come lo percepiamo noi, proprio per via della sua sindrome.

De Dominicis costruisce perciò un sistema chiuso di sguardi, e di cose fuori dal tempo rispetto a chi in quel momento visita la Biennale.

Come scrive Gabriele Guercio in L'arte non evolve - l'universo immobile di Gino De Dominicis, "La Seconda soluzione invita spietatamente a riflettere sul fatto che l'uomo è un'incognita nello spazio-tempo. Se incontra difficoltà nell'accedere alla realtà «così com'è» non è perché la crea con la propria mente, ma perché ne fa talmente parte da non riuscire più a individuarsi in essa. Paola Rosa rammenta questa impasse nel suo apparire totalmente alieno, o perfino sottratto, rispetto alla situazione in cui si trova".[6]

 

In un libro di Carlo Rovelli, intitolato L'ordine del tempo, esattamente nel capitolo 12, il fisico e saggista italiano cerca di rispondere a come e dove s'instauri il fluire del tempo che noi esseri umani percepiamo.

Rovelli dopo averci spiegato, nei primi capitoli del suo volume, il tempo nella Fisica, arriva alla conclusione che questo "fluire" nasca in noi, dentro di noi, nel nostro cervello, nella nostra mente.

Per Rovelli è la memoria che salda tutti i processi sparsi nel tempo di cui siamo costituiti.

In questo senso quindi noi esistiamo nel tempo. Il nostro cervello è un meccanismo che raccoglie memoria del passato per usarla e poter prevedere il futuro: "Questo avviene su uno spettro ampio di scale temporali, a partire da scale molto brevi - se qualcuno ci lancia un oggetto, la nostra mano si muove con destrezza là dove l'oggetto arriverà fra pochi attimi, per afferrarlo: il cervello, usando le impressioni passate, ha calcolato molto rapidamente la posizione futura dell'oggetto che sta volando verso di noi - fino a scale molto lunghe, come quando piantiamo il grano affinché cresca la spiga. (..) La possibilità di prevedere qualcosa del futuro migliora ovviamente le chance di sopravvivenza e quindi l'evoluzione ha selezionato queste strutture neurali, e noi ne siamo il risultato. Questo vivere a cavallo fra eventi passati e futuri è centrale nella nostra struttura mentale. Questo è per noi il «fluire» del tempo".[7]

Inoltre, come ci racconta Rovelli, questa intuizione sulla natura interna (a noi) del tempo appare ripetutamente nella riflessione occidentale già dai tempi di sant'Agostino, ma è con Kant e la sua Critica della ragione pura che osserviamo che lo spazio è forma del senso "esterno", ovvero, il modo di mettere ordine nelle cose che vediamo nel mondo. Il tempo invece è forma del senso "interno", ovvero, il nostro modo di ordinare gli stati dentro di noi. Rovelli addentrandosi ancor di più in questo discorso arriva a parlarci di Heidegger e di come lui abbia scritto che "il tempo si temporalizza solo nella misura in cui ci sono essere umani"[8], per dirla con parole più semplici: che il tempo esiste solo nella percezione umana.

 

Nell'unica immagine che ci rimane di quest'opera "(foto ricordo). Seconda soluzione d'immortalità: l'universo è immobile" (1972), vediamo l'intera composizione dell'opera, con i tre oggetti e Rosa, ma vediamo anche una donna sul lato sinistro dell'immagine.

Questa donna è colta in un momento congelato, sembrerebbe nell'atto di togliersi o mettersi gli occhiali per scrutare meglio l'opera, forse per leggere meglio una delle didascalie di uno dei tre oggetti. La fotografia proprio grazie a questo movimento colto nel braccio della donna, fa risaltare ancor di più la staticità di Rosa e i tre oggetti, evidenziando come l'opera in qualche modo sia proprio in un altro tempo, un tempo che scorre lontano da chi si muove quel giorno in quella sala. Un tempo che crea diacronia, che crea lontananza, un tempo che non è dentro di noi ma nell'opera. Un tempo che sembra guardarci attraverso gli occhi di Rosa, sembra, già perché Rosa osserva dal suo particolare punto di vista interno - come già detto - le opere poste davanti a lui, opposto a quello degli spettatori. Rosa è la chiave dell'opera, perché come dice Heidegger il tempo esiste solo nella presenza di essere umani.

De Dominicis dunque sperimenta. Se questo poi sia un fallimento o no, non saprei proprio dirlo, o anzi potremmo dire che in parte lo è e in parte no; già che Paolo Rosa - così come De Dominicis stesso - è morto. Non c'è stata nessuna soluzione d'immortalità per loro, ma come ho detto prima, in parte quest'opera non è un fallimento, proprio perché è l'opera ad essere rimasta immortale, presente nel presente, viva nel presente, per riprendere la citazione iniziale di Picasso.

 

Della Seconda soluzione infine mi piacerebbe rimarcare un ultimo aspetto che trovo alquanto interessante e che ha a che vedere con tutta la polemica scatenata in quel lontano 1972 alla Biennale, e che portò alla chiusura della sala per volere dello stesso De Dominicis.

Lo scandalo di Venezia tocca per l'epoca l'inquietante esibizione della diversità di un essere simile a noi, ma che al contempo non è ritenuto pari a noi e che quindi viene tenuto a distanza.

Mi riferisco proprio alla sindrome di Down di Paolo Rosa, condizione che stride con le acquisite definizioni sull'identità e su come essa si evolva o dovrebbe evolversi nel tempo. Questa evidenza deve essere risultata insopportabile nel giugno del 1972 come ci racconta Guercio, e a demonizzare questa questione non è stata l'opera di De Dominicis bensì coloro che l'attaccavano. Infatti Guercio scrive, "costoro pretendono che la diversità venga nascosta, non esibita in ambito artistico - e addirittura in modo così indecoroso - e preferibilmente valutata in base alle convenzioni della società, oppure relegata alla diagnosi e alla cura nel contesto della scienza medica"[9].

Più avanti risulterà chiaro perché questo punto dello scandalo è importante.

Nel corso di questo 2020 con la veloce propagazione del virus non ci è rimasto altro che isolarci, confinarci. In molti paesi del mondo si è scelta l'opzione della quarantena, la più drastica, ma per ora probabilmente la migliore, per evitare che il contagio si espanda ulteriormente.

Io e la mia compagna ci siamo ritrovati così, come molti, in quarantena, confinati in casa per praticamente 2 mesi. Fin da subito e durante questo tempo, il virus in qualche modo è riuscito a modificare lo spazio. Proprio per il suo alto tasso di contagio ha costretto i luoghi una volta affollati ad essere desolati. Infatti, durante i due mesi di quarantena che abbiamo vissuto noi in Spagna, molte sono state le immagini che arrivavano anche dall'estero, di piazze e vie, prima famose per la loro frequentazione, in quel momento totalmente vuote.

Le piazze dove una volta i turisti solevano affollarsi per qualche foto, le vie di maggiore transito, i locali, i teatri, e così via, sono stati luoghi desertici per molti giorni.

Le immagini erano molto suggestive, e molto spesso mi hanno riportato ad immagini filmiche, soprattutto di genere fantascientifico come "Io sono leggenda" o "28 giorni dopo".

De Dominicis quando ha creato il "Cubo invisibile" (1967) aveva ben presente che dove non c'è movimento e dunque calore non c'è tempo. De Dominicis infatti crea il suo cubo semplicemente delimitandone la base, un quadrato, per terra; ponendo poi questo "disegno" in uno spazio destinato all'arte, De Dominicis sa che nessuno vi entrerà, che nessuno attraverserà quel determinato spazio, e che quindi in quello spazio non ci sarà nessun movimento e nessuna possibilità che si crei calore e dunque entropia. Semplicemente in quello spazio non vi sarà tempo. O dato che esattamente noi non vedendo il cubo, perché invisibile, non conosciamo esattamente la sua forma, la sua condizione, perché incapaci di vederlo, perché mortali, non abbiamo percezione dunque del suo tempo.

Io credo che il virus in qualche modo abbia compiuto un gesto simile a quello di De Dominicis, isolandoci. Il tempo, il caos che regnavano frenetici in quelle piazze e in quelle vie ad un tratto si è come fermato. Sospeso. Per molti giorni non vi è stato nessun movimento, la frenesia, la confusione sono stati spazzati via.

E noi costretti a ripararci in casa abbiamo vissuto giornate meno frenetiche, dove il tempo è stato diverso, dove il tempo è passato in modo totalmente diverso. Il virus modificando lo spazio ha modificato il tempo. Spazio e tempo come c'insegna la Fisica sono collegati.

 

"Possiamo quindi pensarlo come una tavola rigida. Questa tavola ha direzioni, che chiamiamo spazio, e quella lungo la quale l'entropia aumenta, che chiamiamo tempo. Nella nostra vita quotidiana ci muoviamo a velocità piccole rispetto alla velocità della luce e quindi non vediamo le discrepanze fra i tempi propri diversi di orologi diversi, e le differenze di velocità a cui scorre il tempo a distanze diverse da una massa sono troppo piccole per essere distinte. Alla fine quindi, invece di molti tempi possibili, possiamo parlare di un solo tempo: il tempo della nostra esperienza: uniforme, universale, ordinato. Questo è l'approssimazione di un'approssimazione di un'approssimazione di una descrizione del mondo presa dalla prospettiva particolare di noi esseri che ci nutriamo della crescita dell'entropia, ancorati allo scorrere del tempo. (..) Questo è il tempo per noi: un concetto stratificato, complesso, con molteplici proprietà distinte, che vengono da approssimazioni diverse."[10]

 

In quarantena chi come me lavora tutti i giorni ed è abituato ad un certo fluire del tempo, regolato dagli orologi, ha vissuto probabilmente un tempo mai sperimentato prima. Un tempo più vicino al ritmo della vita, un tempo dove non dovevo correre per arrivare puntuale al lavoro, un tempo dove non ho solo 10 minuti di orologio per mangiare, dove determinate cose non devono essere per forza sbrigate in un certo lasso di tempo, ecc. ecc.

Insomma, abbiamo sperimentato un ritmo di vita in apparenza più naturale, un ritmo che come accennavo non era più regolato dagli orologi, un tempo dove probabilmente molti hanno potuto fare cose che non facevano da tanto, come leggere un buon libro senza l'ansia della frenesia giornaliera.

Ma perché prima della quarantena il tempo ci sembrava diverso? E perché durante la quarantena il tempo ci è probabilmente sembrato altrettanto diverso?

Innanzitutto ci siamo distaccati anche se per un breve periodo dal tempo degli orologi, un tempo che come ci racconta Ernst Jünger ne "Il libro dell'orologio a polvere", è un tempo totalmente alieno, un tempo che non segue il ritmo del giorno e della notte, delle stagioni, della natura, che è bensì è una convenzione nata per misurare fondamentalmente il tempo dello "scambio", il tempo delle merci e della loro produzione, il tempo del lavoro.

Jünger in questo raffinato libro, che ripercorre la storia del tempo attraverso la storia degli orologi, arriva addirittura a definire il tempo degli orologi "meccanici", ma che oggi possono essere benissimo quelli elettronici, come l'inizio del congegno che fonda il capitalismo, e su cui poi si espande la globalizzazione.

Gli ingranaggi degli orologi hanno dato vita ad un tempo totalmente astratto, e in cui come dice Jünger talvolta l'uomo percepisce di essere schiavo.

 

"Nel capitalismo il valore di ogni cosa è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla. Il costo di un lavoratore è dato dal tempo socialmente necessario al suo mantenimento. Pagando al lavoratore un salario pari a questo corrispettivo l'imprenditore si assicura l'unica forma di valore capace di produrre nuovo valore: il lavoro umano."[11]

 

Gli orologi dunque non fanno che misurare questo tempo, il tempo-lavoro, il tempo della produzione. Debord come Jünger ha visto bene, ha letto nella trama delle cose, degli eventi, infatti Debord scrive: "Lo spettacolo nella società corrisponde a una fabbricazione concreta dell'alienazione. L'espansione economica è principalmente l'espansione di questa produzione industriale precisa."[12]

Distaccati da questo tempo, per un momento abbiamo avuto tutti una boccata d'aria, persino il pianeta ha respirato. Ma in quanti davvero hanno respirato? E in quanti si sono sentiti invece soffocare rimanendo rinchiusi in casa?

 

Abbiamo vissuto per interi momenti solo nel presente. Da spettatori dello spettacolo, siamo diventati protagonisti delle nostre vite. Siamo tornati a respirare i momenti con noi stessi, e chi ha potuto con i propri cari. Da spettatori, almeno per quelli più coscienti, non ci sentiamo a casa da nessuna parte, perché lo spettacolo è ovunque, e in ogni posto è già in arrivo con qualche sua merce pilota. Un tempo la merce la si comprava perché era un bene primario, oggi, nell'epoca dell'accumulazione, compriamo spesso solo per comprare, e contempliamo oggetti che in verità non ci servono.

 

"L'alienazione dello spettatore a beneficio dell'oggetto contemplato (che è il risultato della sua stessa attività incosciente) si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio."[13]

 

Schiavi della programmazione (del tempo) siamo stati gettati per un momento vicino ai nostri reali respiri, vicini a quel tempo che ci scorre nel sangue, che ci scorre nella mente, nella memoria; che scorre in noi.

Fuori dal ticchettìo incessante degli orologi qualcuno si deve essere sentito male.

 

"L'idea è tempo. Vivere nel futuro. Guarda come scorrono quei numeri. I soldi creano il tempo. Una volta era il contrario. Gli orologi hanno accelerato l'ascesa del capitalismo. La gente ha smesso di pensare all'eternità. Ha cominciato a concentrarsi sulle ore, ore misurabili, ore lavorative, e a usare il lavoro in modo più efficiente. (..) Perché oggi il tempo è un bene aziendale. Appartiene al sistema del libero mercato. Il presente è più difficile da trovare. Lo stanno risucchiando fuori dal mondo per fare posto a un futuro di mercati incontrollati ed enormi potenziali di investimento. Il futuro diventa insistente."[14]

 

Per un momento abbiamo riassaggiato la qualità del tempo e non soltanto la sua quantità. Forse a qualcuno questo rimane incomprensibile. Mai come oggi l'alienazione è stata vissuta con maggiore entusiasmo. Tiqqun, un gruppo di intellettuali, ha scritto nel 2004 un piccolo volume intitolato "Teoria del Bloom".

In questo libro si narra la storia dell'uomo divenuto ormai estraneo a tutto, talvolta anche a se stesso, questo essere ormai intimi in questa estraneità è ciò che potremmo definire come Bloom.

La parola Bloom indica una Stimmung, ovvero, una disposizione d'animo, umore, o una particolare atmosfera di un determinato ambiente; in altre parole una tonalità fondamentale dell'essere.[15]

Il Bloom non è solo da intendersi come l'uomo alienato, ma come l'essere che non è più in grado di riconoscere, di separarsi dal contesto immediato che lo contiene; "il Bloom è quell'uomo che si è confuso a tal punto con la propria alienazione da vanificare il tentativo di distinguerli".[16]

E' giunto il momento di svegliarsi, e di pensare al cambiamento.

 

"Dubbio. Cos'è il dubbio? Tu non credi nel dubbio. Sei stato tu a dirmelo. I computer eliminano il dubbio. I dubbi derivano dalle esperienze passate. Ma il passato sta scomparendo. Un tempo conoscevamo il passato ma non il futuro. Le cose stanno cambiando, - disse lei. - Ci serve una nuova teoria del tempo."[17]

 

Oggigiorno "l'accelerazione" è la norma, tutto o quasi tutto ormai è istantaneo. Tutte le memorie elettroniche o qualsiasi altra possibilità tecnica di ripetizione annullano l'intervallo temporale. Fanno in modo che tutto il passato sia disponibile all'istante. "Gli intervalli sono soppressi in favore di una prossimità e una simultaneità totalizzanti. Si elimina qualsiasi distanza o lontananza. Si tratta di fare in modo che tutto sia disponibile qui e ora. (..) Tutto ciò che non può essere presente non esiste. Tutto deve essere presente. Gli intervalli temporali che si oppongono al presente sono soppressi. Ci sono due stati: il niente e il presente."[18], - o come lo definirei io, il codice binario del tempo - come ben scrive Byung-Chul Han.

Gli intervalli nel tempo ordinano e articolano, senza di questi, non rimane nient'altro che una giustapposizione di avvenimenti disarticolati. Per intenderci il mondo di oggi assomiglia più alla logica di internet, ad un mondo di links, ad un ipertesto, dove si surfa più che seguire un percorso.

Come scrive Byung-Chul Han a proposito del tempo nella "rete": "Non ha storia. Il tempo della rete è un tempo-adesso (Jetzt-Zeit) discontinuo e puntuale. Ci si sposta da un link ad un altro, da un adesso ad un altro. L'adesso non ha nessuna durata. Non c'è niente che inciti a trattenersi per molto tempo in un punto dell'adesso (Jetzt-Stelle). La moltitudine di possibilità e alternative fa in modo che uno non senta né l'obbligo né la necessità di trattenersi in un determinato punto. Trattenersi a lungo provocherebbe solo la noia."[19] Tutta l'arte e la musica riflettono ormai questa nuova forma di percezione. Niente o quasi niente ormai si crea da uno sviluppo narrativo, ma bensì da una sovrapposizione e densificazione degli eventi. Si pensi per esempio alla teoria della Post Production di N. Bourriaud che analizza gli artisti che sin dagli anni Ottanta hanno cominciato a creare opere sulla base di opere già esistenti.

 

"Erano tre file di dati che scorrevano rapide e simultanee a circa trenta metri sopra la strada. Notizie finanziarie, quotazioni di borsa, mercati valutari. Un moto instancabile. La corsa vertiginosa di numeri e sigle, frazioni, decimali, simboli stilizzati del dollaro, la continua emissione di parole, di informazioni multinazionali, tutto troppo veloce per essere assimilato."[20]

 

La densificazione degli eventi, delle informazioni e delle immagini passano fugaci per le nostre retine, non riescono a catturare una attenzione duratura. Il Presente è diventato un paradosso. Il paradosso consiste nell'avere un presente simultaneo per tutto. Tutto insiste simultaneamente nel presente, la cui conseguenza porta ad una agglomerazione di immagini, di eventi e di informazioni che impediscono qualsivoglia contemplazione. Viviamo nell'epoca della fretta.

Ma non solo gli eventi, le immagini e le informazioni si susseguono senza sosta, oggigiorno anche le cose seguono questa "evoluzione".

 

"L'attuale pressione per la produzione priva le cose della durata. Distrugge intenzionalmente la durata per produrre di più e per obbligare a consumare di più."[21]

 

Ecco perché tutte le cose di oggi ci sembrano fatte per non durare, l'usa e getta non è un'opzione è ormai la prassi.

Come scrive Bauman: "(..) la modernità liquida non si pone alcun obbiettivo e non traccia alcuna linea conclusiva; più precisamente, essa attribuisce il carattere della permanenza unicamente allo stato di transitorietà. Il tempo scorre, ha smesso di 'avanzare'. Esiste il cambiamento - un cambiamento continuo, sempre nuovo - ma non esiste una destinazione, un punto conclusivo, l'aspettativa di una missione da compiere."[22] In quest'ottica risulta comprensibile che ormai viviamo in un tempo binario, dove lo zero è un vuoto, e l'uno è un presente simultaneo e in continuo cambiamento. Questo è il tempo delle informazioni che non hanno né un obbiettivo preciso né una direzione altrettanto precisa. Il nostro è un tempo di punti, un tempo atomizzato, un tempo dove i vuoti, gli zero, creano noia. In questo modo e per queste ragioni questo tempo di punti sente l'impulso di sopprimere o accorciare gli intervalli di vuoto, e per riuscire in tutto ciò s'intenta che le sensazioni si succedano ogni volta sempre più rapidamente. Questa è anche la logica che oggigiorno i nuovi "architetti", i programmatori, i web designer, seguono per la costruzione dei non-luoghi per eccellenza: i siti web. Un sito ben riuscito è un sito chiaro e pulito, funzionale, ma soprattutto dove l'utente non corra il rischio di annoiarsi perché altrimenti andrà via.

Questo nuovo modo di percepire le cose a dato vita a quello che Byung-Chul Han definisce "percezione seriale", dove non c'è sperimentazione della durata. Questa è una percezione sempre in attesa di qualcosa di nuovo, una percezione che ha fretta, che salta da una sensazione ad un'altra, senza finire mai niente: ecco perché network come Netflix, Amazon Prime Video (e via dicendo), oggi sono al loro apice.[23]

Ed ecco perché oggi il disturbo da deficit di attenzione/iperattività è uno dei più diffusi. La percezione non riposa mai perché è sempre a caccia di nuovi stimoli, eccitazioni, esperienze; è così che perdiamo la capacità della ripetizione.

 

"La ripetizione è la caratteristica essenziale dei rituali. Si distingue dalla routine per la sua capacità di generare intensità. (..) Per Kierkegaard la ripetizione e il ricordo rappresentano lo stesso movimento ma in sensi opposti. Ciò che si ricorda è passato, 'si ripete in modo retroattivo', mentre l'autentica ripetizione 'ricorda verso il futuro'. (..) Come dice Kierkegaard, 'ci si stanca solamente delle cose nuove, non di quelle antiche'. Le cose antiche sono 'il pane di ogni giorno, che sazia con la sua benedizione'.[24]

 

Il nostro è un tempo in cui stiamo perdendo il senso delle cose sacre e dei rituali, che un tempo davano forma e organizzavano la vita.

Ma oggi in realtà non esiste neanche praticamente niente di nuovo, in verità tutto ciò che viene spacciato per nuovo è sempre la variazione di qualcosa di già esistente: io questo lo definisco il "differente". Niente è diverso, ma semplicemente differisce in qualche particolare. Basta soffermarsi a riflettere sulla logica del packaging; cambio la forma, cambio il colore, magari anche la grandezza, ma ciò che ti sto per vendere è sempre lo stesso prodotto. Se ci si sofferma a guardare il mondo con questi occhi vedremo che il "differente" è ovunque.

In conclusione: questo tempo, diverso, di cui abbiamo fatto esperienza, forse può essere una "chiave". Aristotele è stato il primo di cui abbiamo conoscenza a porsi il problema su cosa fosse il tempo, ed è arrivato ad una solida conclusione: il tempo è la misura del cambiamento.[25]

Il tempo non è quella cosa indicata dagli orologi, il tempo reale dovrebbe seguire il moto della natura[26], e dei cambiamenti.

E se il virus in qualche modo ha modificato lo spazio, e di conseguenza il tempo percepito, oggi viviamo in "un tempo di fasi". Come sta già accadendo ovunque nel mondo, molti governi hanno deciso di "riaprire" puntando su un'organizzazione suddivisa in fasi, quando il propagarsi del virus sembra allontanarsi si avanza di fase fino ad arrivare a la cosiddetta "nuova normalità", ma in molti luoghi il virus continua nella sua espansione e sta costringendo intere comunità a compiere passi indietro. Il tempo non pare più essere lineare ed avanzare in un'unica direzione.

 

Ricordate che ad un certo punto all'inizio di questo scritto ho brevemente accennato alla polemica riguardante Paolo Rosa durante la Biennale del 1972, e che vi avevo detto che più avanti sarebbe stato tutto chiaro?

Con questa pandemia un altro concetto è stato rimarcato se vogliamo con maggiore forza, ovvero il 'distanziamento sociale', con il quale in verità s'intende che per fermare il virus nel suo contagio dovremmo tutti distanziarci 'fisicamente'; ma ciò che in verità sta accadendo è proprio un vero distanziamento sociale, un distanziamento ulteriore delle classi sociali. La fretta di tornare alla produzione, agli scambi e al consumo sta lasciando indietro i più poveri del mondo. Addirittura c'è chi sostiene che la Pandemia sia solo una mossa contro il capitalismo, dimenticando le migliaia di morti che questa "fretta" sta portando con sé. Ancora una volta stiamo dimostrando di essere una società dell'indifferenza, proprio come in quel lontano 1972, dove il diverso e le minoranze dovevano essere dimenticati, messi da parte, lontani dalla nostra attenzione.

 

Nella puntata de "La aventura del saber" del 25/06/2020 andato in onda sulla tv spagnola[27], il filosofo Reyes Mate ha detto a proposito dei cambiamenti da effettuare dopo la pandemia: "c'è effettivamente da cambiare i valori politici (..), c'è una base da cui partire, e la base è ciò che abbiamo scoperto. Che cos'è ciò che abbiamo scoperto in questi giorni, in queste settimane.. che l'importante è la vita. E questo cosa vuoldire? Che bisogna lottare contro la sofferenza, la sofferenza della malattia, la sofferenza della miseria, della povertà, e la sofferenza dinanzi all'angustia di un futuro incerto. Quindi, la sofferenza è diventata il principio politico fondamentale. Fino ad oggi la sofferenza era solo un sentimento. Io credo che d'ora in poi debba essere un principio politico, e questo significa effettivamente che dobbiamo cambiare le nostre priorità. Fino ad oggi cosa prometteva un politico? La felicità? Tutti dovevano essere più ricchi, più belli, migliori. Invece no, l'importante non è promettere il cielo ma combattere l'inferno. L'importante non è promettere la felicità, ma combattere contro l'infelicità. L'importante non è promettere la ricchezza, ma combattere la povertà."

Mi ripeto ancora una volta: è giunto il momento di svegliarsi e di pensare al cambiamento.

 

Per ora dopo la fine della "prima" quarantena, ahimè, rivedo solo la fretta dell'indifferenza, rivedo e sento ancora con più veemenza che:

 

"Uno spettro si aggira per il mondo - lo spettro del capitalismo"[28]

 

 

 

 

 

[1] Marcel Duchamp - Ingegnere del tempo perduto - Conversazione con Pierre Cabanne, Milano, Abscondita, 2009, pag. 75

[2] Esistono svariate versioni di quest'opera, ma quella della Biennale, rimane a mio modo di vedere la più emblematica perché include Paolo Rosa, un essere umano, e quindi testimonia al meglio come il tempo sia una questione umana.

[3] La lettera dell'immortalità la possiamo ascoltare recitata dall'attrice Mita Medici durante la manifestazione dedicata a De Dominicis, intitolata "Gino on my mind" e svoltasi al Colosseo Nuovo Teatro il 10 Settembre 2012, visibile su:
https://www.youtube.com/watch?v=u3gWboifEds

[4] Per capire un po' di più come le persone affette da sindrome di Down fatichino ad organizzare e a concepire il tempo, si guardi un piccolo esempio.. una madre che prepara schemi giornalieri per la figlia:

https://www.guardaconilcuore.org/materiali-risorse/pratica-quotidiana/pannello-del-tempo

[5] Gabriele Guercio, L'arte non evolve - L'universo immobile di Gino De Dominicis, Milano, Johan & Levi Editore, 2015, pag. 27 paragrafo su Paolo Rosa

[6] Ivi, cit. pag. 35

[7] Carlo Rovelli, L'ordine del tempo, Milano, Adelphi Edizioni, 1° edizione digitale 2017, posizione 1848, cap. 12

[8] Ivi, posizione 1914, cap. 12

[9] Gabriele Guercio, L'arte non evolve - L'universo immobile di Gino De Dominicis, Milano, Johan & Levi Editore, 2015, cit. pag. 17

[10] Carlo Rovelli, L'ordine del tempo, Milano, Adelphi Edizioni, 1° edizione digitale 2017, posizione 2069 cap. 13

[11] Guy Debord, La Società dello Spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi, 1997, dall'introduzione di Carlo Freccero e Daniela Strummia, Cit. pag 10

[12] Ivi, cit. pag. 63

[13] Ivi, cit. pag. 63

[14] Don DeLillo, Cosmopolis, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, cit. pag. 69

[15] Tiqqun, Teoria del Bloom, Torino, Bollati Boringhieri Editore, 2004, pag. 20

[16] Ivi, cit. pag. 25

[17] Don DeLillo, Cosmopolis, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, cit. pag. 74-75

[18] Byung- Chul Han, El aroma del tiempo, Barcellona, Herder Editorial, 2019, cit. pag. 61-62

[19] Ivi, cit. pag. 64

[20] Don DeLillo, Cosmopolis, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, cit. pag. 69

[21] Byung- Chul Han, La desaparición de los rituales, Barcellona, Herder Editorial, 2020, cit. pag. 14

[22] Zygmunt Bauman, Vita Liquida, Bari, Economica Laterza, cit. pag. 66

[23] Byung- Chul Han, La desaparición de los rituales, Barcellona, Herder Editorial, 2020, cfr. pag. 18

[24] Byung- Chul Han, La desaparición de los rituales, Barcellona, Herder Editorial, 2020, cit. pag. 20

[25] Carlo Rovelli, L'ordine del tempo, Milano, Adelphi Edizioni, 1° edizione digitale 2017, posizione 653 cap. 4

[26] Per secoli l'umanità ha fatto a meno degli orologi e si è regolata per esempio col sole, ogni città o villaggio aveva una meridiana che accertava il momento del mezzogiorno, attraverso il quale poi si regolavano gli orologi dei campanili. L'utilità degli orologi è indicare ovunque la stessa ora, ma il sole (il ritmo della natura, notte/giorno) non sorge e tramonta ovunque alla stessa ora. Per molto tempo ogni città ha avuto il suo orario, ma poi si è voluto standardizzare il tutto, ed è allora che si sono creati i fusi (orari).

[27] tratto da "La aventura del saber" del 25/06/2020, visibile su: https://www.rtve.es/alacarta/videos/la-aventura-del-saber/aventura-del-saber-25-06-20/5608091/

[28] Don DeLillo, Cosmopolis, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, cit. pag. 83

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