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Duchamp - Vox1.jpg

Fotografia di M. Duchamp all'interno del volume Ingegnere del tempo perduto - Conversazione con Pierre Cabanne

Immagine fake pubblicata da Vox su Tweeter, la Gran Vía di Madrid piena di bare

Fake e troll.

 

 

Fake:

"1. Utente di un newsgroup, di un forum o di una chat, che falsifica la propria identità mentendo sulla propria condizione, sulle proprie competenze professionali, sulle proprie idee politiche o religiose, oppure assumendo il nickname di un altro utente allo scopo di danneggiarne la reputazione o di ottenere qualche vantaggio.

2. In una rete peer-to-peer, file il cui nome non corrisponde al reale contenuto dello stesso."[1]

 

Troll:

"1. Un troll, nel gergo di Internet e in particolare delle comunità virtuali, è un soggetto che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso e/o del tutto errati, con il solo obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi.

2. L'origine proverrebbe da un altro significato del verbo inglese to troll, muovere un'esca in modo tale da spingere un pesce ad abboccare.

3. Dal sostantivo troll si derivano comunemente, sia in lingua inglese sia tramite l'adattamento alla lingua italiana, il verbo to troll (tradotto in trollare o trolleggiare), trolling (trolleggio), ovvero l'agire come un troll (fomentare gli animi provocatoriamente)."[2]

 

 

Gino de Dominicis era solito affermare: "Io sono più antico di un artista egiziano".

Sembra un paradosso, ma se ci riflettiamo meglio questa affermazione può in un certo senso avere un fondo di verità: se gli egizi sono nati prima di noi, sono i giovani della storia, e noi essendo nati secoli dopo siamo i vecchi, gli antichi.

Col senno di poi, la storia può prendere forme inaspettate, questa è l'ottica in cui entrare per capire al meglio questo scritto.

 

Parlare di Duchamp è complicato, perché capire chi è stato è molto difficile. Si potrebbe azzardare a dire che non è stato un pittore perché ha dipinto pochissimi quadri in vita sua. Si può anche azzardare a dire che non era uno scultore, perché è vero che in vita sua ha creato delle "cose" (era proprio così che egli stesso definiva le sue opere) ma non l'ha fatto nel senso classico del termine, ossia non è stato il classico scultore.

Possiamo azzardare anche a dire che non è stato un fotografo, perché è vero, ha realizzato delle opere che erano in concreto delle fotografie, ma non le realizzava lui.

Possiamo anche in conclusione azzardare a dire che molto di quel che ha "fatto" (fare era appunto come lui stesso designava i suoi atti creativi) non l'ha realizzato direttamente con le sue mani, spesso ha commissionato ad altri (artigiani, scultori, fotografi, ecc.) di fare "cose" per lui.

Chi era Duchamp, un bohémienne? Un bibliotecario? Un inventore? Un compratore e venditore di quadri?[3] Uno speculatore del mondo dell'arte?[4] Un borghese sempre in vacanza? Un cialtrone? Un impostore?

Forse era tutto questo, forse no.

Quindi viene naturale domandarsi: che cos'ha fatto Marcel Duchamp nella sua vita?

Credo che a questa domanda proverò a rispondere attraverso la lettura del libro "Marcel Duchamp - Ingegnere del tempo perduto - Conversazione con Pierre Cabanne".

In questo testo "vengono alla luce" molti aspetti di Duchamp sconosciuti, proprio perché è lui a raccontarli. Credo dunque, che all'ultima delle domande poste poc'anzi, potremmo cercare di rispondere citando ciò che Pierre Cabanne ha tratto dalla conversazione con Duchamp: riferendosi a ciò che Henri-Pierre Roché[5] disse di lui - che la sua migliore opera era stata l'impiego del suo tempo -,  a questa affermazione Duchamp rispose, "E' giusto. O meglio, credo che sia giusto"[6]. Quel "credo", che è come dire "forse", ci lascia comunque il dubbio.

Si potrebbe dire allora che Duchamp sia stato un personaggio sempre al limite del contraddittorio, ironico ed irriverente?

Come quando egli stesso, parlando dei grandi artisti del passato, chiarisce che per lui non tutto ciò che ha fatto un grande artista è grandioso, solo per il semplice fatto che sia stato fatto da un artista che riteniamo grande; una porcheria rimane tale anche se l'ha fatta Cimabue![7]

Ma oggi, per l'appunto, consideriamo capolavori indiscriminatamente tutte le opere dei grandi del passato. Perché un'opera sia riconosciuta come tale, c'è assolutamente bisogno che un pubblico l'accetti e la reputi così.

Da questo si evince, a mio avviso, un fatto reale: Duchamp credeva in alcune cose, e una di queste era sicuramente che l'artista esistesse solamente se riconosciuto, e di conseguenza che "l'opera artistica fosse un prodotto a due poli: quello di chi la realizza e quello di chi la osserva. Attribuisco la stessa importanza allo spettatore e all'artista"[8]. L'opera perciò per Duchamp ha strettamente bisogno di uno sguardo che la veda, che la osservi; solo così la si porta a compimento.

 

Nella figura di Duchamp a conti fatti ritroviamo la rottura dell'arte, dove per "rottura" intendo dire che Duchamp con le sue opere - che d'ora in poi chiamerò "gesti" - ha praticato una frattura-fraintesa (in molti casi) dal mondo stesso dell'arte e dagli artisti, e di conseguenza da tutto il resto del mondo.

Duchamp ha creato questa rottura, cercando di andare oltre i soliti canoni dell'arte[9] presenti nella storia fino a quel momento.

L'arte quindi, nel suo senso classico, per Duchamp doveva morire, perché nella sua concezione essa assumeva sempre più la forma di un segno[10], non essendo più svilita a mera funzione di arredo, come ad esempio accadeva al quadro. In semiotica infatti un segno è considerato una unità discreta di significato: un sistema, composto da un segnale, una referenza e un referente, che rinvia ad un contenuto.

Il contenuto! Eccoci finalmente giunti al punto! Si potrebbe forse dire dunque che Duchamp ai suoi tempi vedesse la storia dell'arte povera di contenuti?

Parafrasando Leonardo potremmo dunque dire che l'arte è cosa mentale?

Leggendo l'intera conversazione tra Cabanne e Duchamp si può intuire che per quest'ultimo fosse proprio così, egli preferiva sicuramente l'arte concettuale, e quel che non sopportava assolutamente era ciò che non era concettuale, ciò che era semplicemente retinico... questo irritava Duchamp.[11]

 

Esiste un altro aspetto molto intrigante in Duchamp, ovvero che, a differenza forse di altri geni del passato, lui ai suoi tempi fosse già considerato un artista importante, anzi praticamente un maestro già allora; ma questo maestro odiava andare alle mostre, ai vernissage, o visitare musei.

Mi domando io, come può un artista creare cose nuove senza vedere e conoscere ciò che gli sta intorno?
Azzardo nel dire che a mio parere questo è un fatto in parte non vero, ossia, è possibilmente vero che, come egli stesso diceva, non frequentasse musei né mostre, bensì l'elite dell'arte dei suoi tempi: egli conosceva le persone, intesseva amicizie e contatti, e questo a mio parere ti porta in un modo o nell'altro a dover vedere "certe cose" anche se la tua intenzione è un'altra.

Ancora una volta Duchamp è un'incognita, una contrapposizione ai suoi ideali per così dire annunciati. Come quando Cabanne ricorda a Duchamp che lui stesso fosse convinto che le mostre non gli interessassero, che per lui fossero solo dei teatrini e che le disapprovasse vivamente.

 

Ma questa farsa, che per tutta la vita lei ha rifiutato, ora l'accetta di buon grado..

Si cambia. Alla fine si accetta tutto con un sorriso. Non bisogna comunque lasciarsi intrappolare.[12]

 

Anche qui, ancora una volta Duchamp enuncia qualcosa e subito dopo pare negarla.

 

Si dice che Picasso ripetesse questa frase: "i bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano".

Nella prima parte del libro che stiamo considerando, tra le pagine si cela un piccolissimo particolare che ha attirato la mia attenzione: ad un certo punto nella conversazione tra i due, Duchamp cita un certo Povolozky, dicendo di avere letto alcune cose scritte da lui e che queste cose si aggirassero nella sua mente proprio mentre lavorava alla realizzazione del Grande Vetro (il cui vero nome è "Mariée mise à nu par ses célibataires, même" più noto come appunto "Le Grand Verre"), che è e rimane a parer mio la sua più grande opera insieme a Étant donnés: 1. La chute d'eau, 2. Le gaz d'éclairage. Ma chi è questo Povolozky a cui si riferisce Duchamp? Ed è qui il particolare al quale già accennavo: tra le note, Cabanne cerca di chiarire che Duchamp, forse per una volontà giocosa (a tutti è noto come egli amasse i giochi, e soprattutto i giochi di parole), faccia finta di non sapere a chi si riferisse, perché cita il nome sbagliato, confonde Povolozky, un gallerista dell'epoca, con Pawlowski, scrittore, inventore e giornalista, che scrisse Viaggio nel paese della quarta dimensione.

Bene, spinto dalla curiosità, ho scoperto innanzi tutto due cose a cui inizialmente non avevo fatto caso: la prima, che Ingegnere del tempo perduto sembrerebbe essere un'opera di Duchamp stesso, non uno scritto di Cabanne, anche se lui ha scritto la postfazione. Ma è proprio un'opera "letteraria" duchampiana (e l'unico aggettivo che mi viene in mente), un'opera in cui, attraverso il suo proprio racconto, cela i suoi segreti. Ed è alquanto curioso anche che, durante la ri-lettura di questo libro, io abbia provato a cercare attraverso Google la seguente parola chiave "marcel duchamp ingegnere del tempo perduto", e che uno dei primi risultati sia un riquadro a destra dello schermo, di Google Books, che ci informa che il libro è di Rrose Sélavy, il famoso alterego donna di Duchamp.

Duchamp ne sarebbe sicuramente felice.

Ed è altrettanto curioso che, nella mia edizione del libro, quella di Abscondita del 2009, non  sia riportata la data della prima stampa del libro (ho dovuto cercare su internet: 1967), quasi come se non si dovesse sapere, così da confondere ancor di più le acque.

La seconda; sono andato a leggere anche io qualcosa su questo Pawlowski[13] e ho scoperto che era uno stimatore dei giochi di parole, già, ha persino scritto un libro intitolato "Le nuove invenzioni e le ultime novità" (1916) nella quale troviamo invenzioni tanto assurde quanto sorprendenti, come il metro tascabile che misura soltanto 10 cm, o altre come, l'innovativo boomerang francese che, “per prevenire ogni rischio d'incidente, non ritorna indietro", e le banconote ignifughe; tutto questo non fa pensare a Duchamp? Io mi azzardo a dire che Duchamp sia in verità il più grande ladro del mondo dell'arte, o perlomeno quello che l'ha celato meglio.

 

Il libro Viaggio nel paese della quarta dimensione di Pawlowski è probabilmente la scintilla per capire al meglio il Grande Vetro, innanzi tutto perché Duchamp stesso conferma che è da lì che è partita l'idea. Ma soprattutto perché, come egli stesso racconta, l'unico modo per far sì che il colore non si ossidi (e che quindi il tempo non lo rovini) è quello di applicarlo su di una lastra di vetro e poi coprire il tutto con un'altra, anch'essa di vetro. Così facendo il colore rimane puro nella sua visività.[14]

Questa è o non è una possibile realizzazione della quarta dimensione? Provo a spiegarmi meglio, così facendo Duchamp è riuscito a fermare il tempo dentro il suo Grande Vetro. Questo pensiero mi pare essere confermato anche dallo stesso Duchamp quando dichiara che la "Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche" sia solo un "ritardo in vetro"[15], ancora una volta un gioco di parole per dirci semplicemente che la Sposa non è mai arrivata al matrimonio a cui era tanto attesa; purtroppo per lei, è rimasta bloccata dentro un vetro.

 

Il Grande Vetro è e rimane comunque un mistero, una frattura fraintesa, già, perché come lo stesso Duchamp rivela (o almeno così sembra) esso doveva essere accompagnato nella sua visione da un'altra opera, la Scatola del 1913-1914, che conteneva i calcoli matematici, le riflessioni, senza alcun rapporto fra loro, e che dovevano fungere da note, dovevano accompagnare la visione e allontanare dalla questione retinica, che Duchamp rifiutava.

Rifiutare l'estetica, e in questo caso il concetto di "esteticamente bello", "esteticamente piacevole" doveva essere il gesto per liberarsi, per "far fuori" secoli di storia di una certa ricerca estetica, quella classica.
Spazzare via tutto. Creare un nuovo paradigma. Creare una nuova storia. Con Duchamp dunque la creazione non può più essere considerata come un prodotto estetico, ma come una "cosa" totalmente liberata.

 

Duchamp l'iconoclasta.

 

Vorrei infine dire, con un gesto d'irriverenza verso l'arte stessa e verso la storia che, Duchamp è solo un troll, e che ci ha trollato tutti, e che le sue opere sono soltanto dei rebus e quindi dei fakes.

Come posso dire ciò? Perché credo che questo gioco sarebbe piaciuto a Duchamp.

 

Robert Lebel ha affermato che a quell'epoca lei "aveva raggiunto il livello massimo dell'inestetico, dell'inutile e dell'ingiustificabile".
E' molto piacevole come formula. L'ha scritta nel suo libro? Ebbene, me ne rallegro! (..)[16]

 

Ah Duchamp! Duchamp! Il grande negatore Duchamp. Quel che è certo è che Duchamp con i suoi gesti è riuscito ad emanciparsi da tutto e da tutti, dal suo ambiente, dalla sua epoca, dall'arte del suo tempo. Le sue scelte e i suoi gesti hanno spazzato via il conformismo intellettuale di un'epoca nella quale i musei erano considerati come luoghi di culto e i "maestri" come semidei. Ci insegna anche che l'intelligenza più raffinata non ha bisogno di esprimersi con una dialettica astrusa.

Duchamp per tutta la sua vita non ha cercato d'invalidare l'opinione che si può avere su di lui ma di vanificarla. Tutta la sua vita e la sua opera può essere riletta come un'entità che ha cercato (come ho già scritto) di svelare nascondendo. Un paradosso, ma è così. A enunciati chiari seguivano altrettanti a negare i primi, come in una rete dove egli stesso dirigeva il traffico d'informazioni sulla sua figura.

Il ready-made[17] duchampiano ha così acquisito, dopo essere stato considerato una divertente eccentricità, un'importanza capitale, esso è stato assorbito e assimilato come una nuova tecnica sulla quale fondare una nuova scuola. Ma questo gesto non era forse solo il modo di Duchamp di vanificare la figura dell'artista e della creazione e di tutto quello che le sta attorno?

 

Ecco, dunque, a mio parere la frattura-fraintesa.

 

 

Voler superare l'arte significa paradossalmente produrre nuove forme d'arte.[18]

 

Gli anni '60 sono stati gli anni della contestazione, gli anni degli ideali, e probabilmente gli ultimi anni in cui è vissuta una generazione di giovani veramente idealisti. Ma in quegli stessi anni, improvvisamente, come ci raccontano Carlo Freccero e Daniela Strumia nella prefazione a La Società dello Spettacolo (pubblicato per la prima volta nel 1967) di Guy Debord, lo scenario è cambiato, e tutti hanno vissuto sulla loro pelle un cambiamento di episteme. E allora che "i gesti che volevano essere «contro» sono diventati gesti d'integrazione"[19]. E ogni critica dello spettacolo ha favorito nient'altro che la sua realizzazione.

Questo è certamente solo un aspetto di un discorso molto più ampio come è appunto la nascita di questa nuova società. Ma dal testo di Debord vorrei trarre la connessione per parlare dei fake e dei troll ai giorni nostri. Nei Commentari sulla società dello spettacolo Guy Debord aggiunge altri punti al suo già complesso saggio che ha avuto la capacità di anticipare i tempi.

Dunque, in questi commentari l'autore aggiunge il concetto di spettacolo integrato, nato dalla fusione delle due Società dello spettacolo che Debord aveva già appunto identificato, legate a due forme di regime politico: lo spettacolo concentrato, tipico delle società dittatoriali, e lo spettacolo diffuso, tipico invece delle democrazie occidentali dominate dal consumismo.

Lo spettacolo integrato nasce quindi da una combinazione ragionata delle due precedenti e sulla base della vittoria dello spettacolo che si era dimostrato più forte, ovvero, quello diffuso.

In questa visione del mondo, la società si è sviluppata e contraddistinta sull'effetto di cinque caratteristiche principali[20], di cui due in questo caso c'interessano perché inerenti al nostro tema: il segreto generalizzato e il falso indiscutibile. La prima di queste caratteristiche fondanti della nostra società prevede che il centro direttivo sia totalmente occulto, e che sia praticamente indiscutibile, fornendo al falso una qualità del tutto nuova e riducendo il vero a uno stato di ipotesi indimostrabile nella maggior parte dei casi. Il falso indiscutibile ha ultimato in molti casi la scomparsa dell'opinione pubblica, che in un primo momento è incapace di farsi sentire e che, in seguito, è incapace persino di formarsi. Queste due caratteristiche, a voler ben vedere, sono la causa e l'effetto dei Troll e dei Fake, e oggi la rete ne pullula e la maggior parte di noi prima o poi ne è vittima.

In molti casi questo fenomeno contemporaneo è connesso ad un sistema più vasto, che ha a che vedere con la propaganda di alcuni gruppi dell'estrema destra e con il meccanismo della formazione del consenso nell'epoca dei Social.

A chi a questo punto non viene in mente la Lega, in Italia, con il suo segretario Matteo Salvini che praticamente vive su Twitter, e ai suoi tweet che spesso "rimbalzano" fake news per fomentare l'odio e il razzismo... A chi non viene in mente Vox, partito politico spagnolo di destra che ha molte caratteristiche simili alla Lega, e che usa le fake news per fomentare il proprio vuoto ideologico.

Già, perché questa nuova destra, come ha ben descritto l'attuale Vicepresidente spagnolo Pablo Iglesias nel mese di Aprile 2020 durante una riunione del Congresso, non ha un'ideologia, ed è lontanamente parente di quella destra che un tempo era fascista, una destra che per quanto risultato aberrante dell'umanità aveva un'ideologia; ma oggi questi signori non arrivano a qualcosa di tanto straordinario, sono solo un gruppo di grandi nomi e poca vergogna, che falsificano notizie senza poter giungere al potere, o che aggiungo io, non sono capaci di governare quando infine lo raggiungono (la Lega), e che non hanno altra patria se non il proprio denaro. Questa nuova destra non è neanche fascista, è solamente un gruppo di parassiti.[21]

 

E' facile ricollegare tutto questo al momento collettivo che abbiamo vissuto, ovvero, la quarantena; con quante notizie e quanta informazione, e con quante parole nuove abbiamo iniziato a convivere?
Una di queste è sicuramente infodemia, che significa: sovrabbondanza di informazioni che invece di far chiarezza nei temi trattati aggiungono solo confusione e smarrimento.

L'OMS da alcuni anni usa questo termine proprio perché coloro che si dedicano scientificamente all'individuazione e alla gestione di pandemie, sanno perfettamente che dietro ad un virus ce ne sono molti altri che non hanno nulla a che vedere con il virus originario. Nello stesso modo in cui un virus si propaga infettando, l'informazione fattasi un'amalgama di informazione e disinformazione si trasmette attraverso tutto il "corpo sociale" con velocità epidemiologica.

L'infodemia pertanto è molto difficile da contrastare perché s'insinua nella paura, nell'incertezza, nella rabbia e nell'ansietà che si provocano durante una pandemia. Inoltre quanta più mole di informazione circola più si svaluta l'informazione stessa, creando nient'altro che disorientamento.

Infatti, durante la pandemia è stato molto comune, per me, sentire tra amici e familiari l'espressione "non so più cosa pensare", e molto spesso io stesso ho provato la stessa sensazione.

Mi piacerebbe ancora una volta trarre spunto da Debord e dal suo testo La società dello spettacolo, nel quale egli enuncia che l'era dello spettacolo integrato celebra infine la completa maturazione della prospettiva spettacolare, ovvero, la completa conversione del vero nel falso.

 

La falsità spicca il volo e la verità la segue zoppicando[22]

 

Stando ad un articolo pubblicato sul The Atlantic di cui sono venuto a conoscenza grazie alla versione online dell'Internazionale[23], l'importante rivista Science avrebbe compiuto una ambiziosa ricerca sul come e il perché la verità non può competere contro la menzogna sui Social.

La ricerca è stata eseguita da Soroush Vosoughi, analista dati presso il Mit[24], e ha preso in esame le notizie più importanti, in lingua inglese, diffuse su Twitter da quando esiste; per l'esattezza 126mila notizie, condivise da tre milioni di utenti in più di dieci anni (dal 2006 al 2016).

Nonostante la ricerca si basi solo su una piattaforma social, Twitter, è lecito pensare che gli stessi meccanismi si possano individuare anche su Facebook, Youtube, e altri social network importanti.

Il risultato di questo studio ha dimostrato come una storia falsa ha molte più probabilità di diventare virale rispetto a una vera, e come queste storie false esistano in tutti gli ambiti, economia, terrorismo, guerra, scienza, tecnologia, intrattenimento, ma soprattutto nell'ambito delle notizie che riguardano la politica. In questa interessantissima ricerca Vosoughi e i suoi colleghi hanno avuto a che fare con domande di vitale importanza, come per esempio, che cos'è la verità e come possiamo riconoscerla. Ora, in questo spazio, non mi dilungherò a raccontarvi l'intera odissea di Vosoughi e la sua squadra di ricercatori (per la quale vi invito a leggere l'articolo[25]), ma mi vorrei soffermare sul perché la falsità se la cava tanto bene stando a quanto ci dicono gli studiosi del Mit.

A quanto pare lo studio dimostrerebbe che le notizie false sembrano più originali di quelle vere, e che provochino maggiori emozioni associate alla sorpresa e al disgusto, mentre le notizie vere richiamano a parole collegate alla tristezza e alla fiducia. Come analizza anche il filosofo di origine coreane ma che vive in Germania, Byung-Chul Han: "La comunicazione digitale è guidata prettamente dalle passioni. Produce una scarica emozionale immediata. Twitter si è dimostrato essere un medium emozionale. La politica che si basa in essa è una politica emotiva. La politica dovrebbe essere invece ragione e mediazione. La ragione, che ha bisogno di tempo, oggi retrocede sempre di più di fronte alle passioni a breve durata. Il regime neoliberale individualizza gli uomini. Contemporaneamente si evoca l'empatia. (..) L'attuale promozione dell'empatia sottostà a motivi economici. L'empatia si applica come efficiente mezzo di produzione. Serve per influenzare e manipolare emotivamente le persone. Nel regime neoliberale non solo si sfrutta il tempo lavorativo, ma anche la persona intera. (..) La psicopolitica neoliberale lavora per creare emozioni positive e sfruttarle. In ultima analisi si sfrutta la libertà personale."[26]

Il succo di questo studio sembra quindi dimostrare che i contenuti che suscitano emozioni forti arrivano più lontano, più in fretta e più in profondità, ovviamente stando allo studio il tutto sarebbe riferito solo a Twitter, ma come non notare questi stessi meccanismi un po' ovunque intorno a noi, sia nel mondo virtuale che nel mondo reale. E stando a quanto dice Robinson Meyer (il giornalista autore di questo articolo sul The Atlantic), questa ricerca suggerisce forse che le piattaforme dei social media non incoraggiano il genere di comportamento che rende stabile un governo democratico. Questo tipo di piattaforme e in generale internet portano a rendere ogni utente al tempo stesso lettore, scrittore ed editore; dunque le falsità sono troppo seducenti per non avere successo, giacché molto spesso è proprio questo che si cerca sui social: la visibilità e l'esibizionismo.

In conclusione, lo studio dimostra come ne sappiamo ancora troppo poco su questa tendenza a favore della falsità, e in breve i social media sembrano amplificare questo fenomeno dei giorni nostri, e finora nessuno, dagli esperti ai politici, alle aziende tecnologiche, sa come cambiare questa tendenza. Per tutti questi motivi va fatto notare senza dubbio che questo è un fenomeno di reale pericolo, e che questo momento storico è sicuramente un momento rischioso per qualsiasi sistema di governo fondato su una realtà pubblica condivisa - come ben scrive Meyer.

Perciò per dirla con Debord, oggi che lo spettacolo è più potente, non solo la critica risulta sempre più difficile, ma diventa difficile addirittura parlare della realtà che ci circonda; ritengo probabile che qui risieda il perché di una affermazione che tanto sento dire in questo periodo: "non so più cosa pensare".

Parafrasando una citazione di Debord tratta da un articolo di Le Monde del 19 Settembre del 1967 che illustrava efficacemente la formula della potenza dello spettacolo: "di ciò che esiste, non c'è più bisogno di parlare"; potremmo oggi trasformarla in "di ciò che è giusto e buono, non c'è più bisogno di parlare".

La verità non è spettacolare.

 

Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.[27]

 

A me tutto questo riporta alla mente un vecchio gioco che ho fatto e ho visto fare da bambino, il "telefono senza fili", un gioco molto semplice nel quale i partecipanti si bisbigliano una parola o una frase all'orecchio, che di volta in volta passa da giocatore a giocatore fino all'ultimo che infine la dice ad alta voce. Il bello di questo gioco è che molto spesso la frase dell'ultimo giocatore è molto diversa da quella di partenza, a causa del combinarsi e sommarsi di errori successivi di interpretazione.

Questo gioco è interessante, proprio perché ci dimostra come l'errore cumulativo deforma le informazioni via via che esse si diffondono, sia che esse passino di bocca in bocca come nei pettegolezzi, sia che vengano trasmesse in maniera più formale come ad esempio tramite i mass media. Questo gioco mi fa tornare in mente un film del 1999 di Davis Guggenheim, intitolato Gossip.

Il film, in breve, racconta la storia di alcuni studenti di un college americano i quali, influenzati da una lezione di un loro professore, si cimentano in un lavoro sperimentale incentrato sulla relazione tra notizia e pettegolezzo. Per condurre il loro sperimento decidono di spargere per il college un pettegolezzo su Naomi, una bella e ricca matricola, la quale a loro detta sarebbe andata a letto con Beau. Il meccanismo del pettegolezzo prende il volo, e passando di bocca in bocca, di racconto in racconto, proprio come nel gioco del "telefono senza fili" si accresce fino a diventare una calunnia, per la quale Beau verrà accusato di stupro, rischiando una condanna.

Tutto questo che cosa ci dimostra?

Ci dimostra che le "cose" sono la rappresentazione e poi il racconto che noi ce ne facciamo, o che altri ne fanno e che noi interiorizziamo, e che di conseguenza consolidiamo trasmettendolo ad altri ancora. Per inciso: tutto può venire "distorto" dal nostro punto di vista, persino dati reali, numeri, statistiche. Tutto questo lascerebbe il tempo che trova se non fosse che appunto oggi, queste dinamiche prendono strade assai perverse; ed è in questo caso che prendono il nome di "meccanismo del discredito"[28].

Ma come funziona questo meccanismo?

Per rispondere a questa domanda seguiremo l'esperta di comunicazione, Annamaria Testa, e ciò che ha scritto sull'Internazionale online; il meccanismo del discredito si attiva proprio modificando in modo strumentale e molto spesso brutale la nostra percezione del mondo, e tutte le possibili narrazioni che ne conseguono, e dunque modificando la percezione del mondo e della realtà di chi si troverà esposto a quel racconto.

Queste narrazioni esistono per l'appunto perché qualcuno le diffonde e qualcun altro di volta in volta le propaga ancor di più, questo può succedere sia nel mondo virtuale come nel mondo reale. In entrambi i casi, più la storia è semplice, convincente, bugiarda, più è potente, proprio perché spesso attiva emozioni forti e primordiali, come rabbia e paura.

Questo ci dimostra anche che disinformare e screditare è molto semplice. Il grosso problema è però che ai giorni nostri il meccanismo del discredito è diventato facilissimo da attivare, e da propagare, soprattutto sulle piattaforme social. Il meccanismo del discredito è una macchina che non si inceppa mai, quasi quanto il meccanismo stesso dello spettacolo; contrastare una narrazione screditante non fa che darle più forza, contrapporle una narrazione non screditante non fa che darle la stessa legittimazione, e ignorare una narrazione screditante non fa che sottolineare l'impotenza di chi è screditato.

 

Dunque lo spettacolo non sarebbe altro che l'eccesso del mediale, la cui natura, indiscutibilmente buona dato che serve a comunicare, è talvolta portata all'eccesso.[29]

 

Durante i giorni della Pandemia, il partito politico spagnolo Vox, di cui abbiamo già accennato non ha mai perso il suo stile inconfondibile, che come abbiamo detto è volto a farsi propaganda a colpi di fake news, talvolta davvero esagerate. Ne è un chiaro esempio l'immagine che ho scelto per questo mio scritto, tratta dall'account Twitter di Vox, nel quale vediamo la Gran Vía di Madrid ricoperta di bare, ciascuna delle quali è coperta da una bandiera spagnola, e sullo sfondo un rider di Glovo che cammina attraverso il macabro scenario. Un testo accompagnava l'immagine: "Gli spagnoli stanno realizzando molte immagini in maniera spontanea. Questa ritrae perfettamente il dolore di questa tragedia che il Governo e i suoi satelliti mediatici vogliono occultare".

Ovviamente l'immagine non è passata senza clamore, è un evidente fake, e in un secondo momento Vox ha cancellato il tweet, già, perché l'autore indignato della fotografia, Ignacio Pereira, ha chiesto, sempre su Twitter, che Vox ritirasse quanto prima quell'immagine, che era stata ritoccata aggiungendo le bare e distorcendo il suo significato: quella fotografia faceva parte di un progetto artistico precedente alla pandemia e che trattava il tema della solitudine nelle grandi città.

Successivamente Vox ha risposto, dicendo che il montaggio non era loro e che pensavano fosse stato realizzato da una persona affine alla loro ideologia.

Il tentativo di Vox è palese, usare l'arma dello screditamento come contrapposizione politica. Screditare, come dice Annamaria Testa, è più facile che argomentare, e risulta un'opzione non solo obbligata ma vincente quando non si hanno buoni argomenti. Inoltre, è una scelta congruente con la semplificazione e la velocità dei nuovi media, e la loro orizzontalità: chiunque può screditare.

Succede la stessa cosa ovunque, giacché questo di Vox è solo un esempio fra i tanti.

Nessun popolo o persona ne è immune, le fake news ormai sono un mercato, si fanno migliaia di dollari semplicemente con il meccanismo del pay for click, ovvero guadagnando soldi dagli annunci posizionati sulla pagina del fake, che si agganciano a piattaforme come Google Adsense[30].

Come scrive Alessandro D'Avenia sul Corriere.it, ormai "Siamo dentro un Matrix informativo e performativo, in cui le notizie non puntano alla verità ma alla viralità: si diffonde un'infodemia (epidemia di informazioni) che non rende più consapevoli e razionali di fronte alla realtà, ma anzi orienta i comportamenti a partire da percezioni falsate.", e ancora, "E noi, dopo abbuffate di 'breaking news', sappiamo di più e siamo diventati capaci di prendere una decisione? La risposta è troppo spesso: no, come mostrano gli eventi recenti, in cui l'iper-comunicazione non aiuta a capire e agire meglio, ma alimenta uno stato di paura costante, che spesso ci rende più dipendenti e manipolabili (..)"[31]. Anche il giornalismo ormai, spesso, soddisfa solo l'esigenza di spettacolarizzazione. "L'unica consolazione", come dice la Testa, "è che il meccanismo del discredito è così vorace da contenere in sé la propria nemesi: quando tutto sarà screditato, non resterà che screditare chi scredita, fino a quando l'intera struttura narrativa  non collasserà su se stessa".

 

Forse oggi più che mai in un mondo di fraintendimenti, un messaggio sta passando nella Rete, ed è quel messaggio d'incitamento al cambio, un cambiamento che deve avvenire prima nelle coscienze delle persone (non è un caso infatti che a parlarne siano sopratutto i filosofi contemporanei), che come in Matrix si devono risvegliare dal loro torpore, e rendersi conto che o si cambia oggi, per le nostre vite e per il nostro pianeta, o abbiamo perso un'altra occasione in vista di un cambiamento che ad un certo punto non dipenderà più da noi: il cambiamento climatico.

 

 

 

 

[1] Da Google, consultabile su:

https://www.google.com/search?client=opera&q=fake+significato&sourceid=opera&ie=UTF-8&oe=UTF-8

[2] Da Wikipedia, consultabile su: https://it.wikipedia.org/wiki/Troll_(Internet)

[3] Marcel Duchamp - Ingegnere del tempo perduto - Conversazione con Pierre Cabanne, Milano, Abscondita, 2009, pag. 79

[4] Ivi, pag. 80

[5] Henri-Pierre Roché è stato uno scrittore e collezionista d'arte francese, famoso per avere scritto il romanzo Jules e Jim, da cui François Truffaut ha tratto uno dei suoi film più noti, è stato grande amico di Duchamp al quale dedicherà il suo ultimo romanzo autobiografico, Victor, rimasto incompiuto a causa della morte.

[6] Marcel Duchamp - Ingegnere del tempo perduto - Conversazione con Pierre Cabanne, Milano, Abscondita, 2009, pag. 78

[7] Ivi, pag. 75

[8] Ivi, cit. pag. 76

[9] Con questo mi riferisco al fatto che Duchamp con i suoi gesti ha rotto definitivamente con l'estetica classica dell'opera d'arte, dove l'opera d'arte era intesa come riproduzione verosimigliante della realtà. Ma soprattutto egli si distacca dal binomio opera d'arte = dipinto, la famosa questione retinica di cui parlava.

[10] Ivi, pag. 103

[11] Ivi, pag. 84

[12] Ivi, pag. 100

[13] In verità anche Raymond Russell, scrittore, drammaturgo e poeta, è probabilmente una delle maggiori influenze che Duchamp abbia avuto.

[14] Ivi, pag. 39

[15] Ivi, pag. 41

[16] Ivi, pag. 71

[17] Si pensi soprattutto all'orinatoio di Duchamp e al caso de la Society of Indipendent Artist dove il ready-made venne presentato sotto falso nome, "R. Mutt", un gesto che voleva minare l'istituzione museale e artistica del tempo.

[18] Guy Debord, La Società dello Spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi, 1997, dall'introduzione di Carlo Freccero e Daniela Strummia, Cit. pag. 8

[19] Ivi, Cit. pag. 8

[20] Ivi, pag. 146, per conoscere e capire meglio questi 5 punti leggere la parte V dei Commentari.

[21] L'intervento di Pablo Iglesias rivolto a Vox può essere visto su:

https://www.youtube.com/watch?v=_hFm83S1RaE

[22] Una famosa iperbole di Jonathan Swift, scrittore e poeta irlandese, scrittore di romanzi e pamphlet satirici, tra le sue opere più famose, I Viaggi di Gulliver.

[23] Articolo tradotto dal The Atlantic di Robinson Meyer sull'Internazionale online, Le notizie false hanno sempre la meglio su quelle vere, consultabile su:

 https://www.internazionale.it/notizie/robinson-meyer/2018/03/18/notizie-false-science-ricerca

[24] L'istituto di tecnologia del Massachusetts, in inglese Massachusetts Institute of Tecnology, MIT, una delle più importanti università di ricerca nel mondo, con sede a Cambridge nel Massachusetts (U.S.A.).

[25] vedere nota 23

[26] Byung-Chul Han, La desaparición de los rituales, Barcellona, Herder Editorial, 2020, cit. pag. 24-25

[27] Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi, 1997, cit. pag. 55

[28] Articolo di Annamaria Testa, Come funziona il meccanismo del discredito, su l'Internazionale online, consultabile su:

https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2018/07/25/meccanismo-discredito

[29] Cit. dai Commentari della Società dello spettcolo, pag. 192

[30] Articolo di Alberto Magnani, Fare soldi con le bufale: ecco come guadagnano i siti di notizie fake, su ilsole24ore.com, consultabile su:

https://st.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-12-20/fare-soldi-le-bufale-ecco-come-guadagnano-siti-notizie-fake-172031.shtml?uuid=ADgonRHC

[31] Articolo di Alessandro D'avenia, 34. Infodemia, sul Corriere.it, consultabile su:

https://www.corriere.it/alessandro-d-avenia-ultimo-banco/20_maggio_04/34-infodemia-f687884a-8d4e-11ea-876b-8ec8c59e51b8.shtml

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