top of page
la fine del mondo.jpg

Giorgio Andreotta Calò, Senza Titolo (La fine del mondo), 2017

Il Papa a San Pietro nel giorno dello straordinario Urbi et Orbi, 27/03/2020

La fine del mondo.

 

Nel 2017 ho visitato la Biennale d'Arte, e credo di avere visto uno dei Padiglioni Italiani più interessanti degli ultimi periodi. Il tema e il titolo di quell'anno erano Il Mondo Magico, curato e ideato da Cecilia Alemani, ispirato al libro di Ernesto de Martino, antropologo napoletano. Quell'anno il numero degli artisti presenti era stato ridotto a tre.

Tra queste tre proposte, una più delle altre mi aveva colpito in maniera che definirei per l'appunto magica: si tratta dell'opera di Giorgio Andreotta Calò, intitolata "Senza Titolo (La fine del mondo)".

Cecilia Alemani descrive il progetto come un'affascinante rilettura del magico[1]: non come una fuga nell'irrazionale o una conoscenza di secondo grado, se vogliamo folcloristica, bensì come una tesi volta ad indagare nelle popolazioni antiche e coeve a de Martino nell'Italia degli anni '50 e '60. Il Magico dunque viene indagato quale strumento con cui l'uomo può riaffermare la propria presenza nel mondo in un momento di grande crisi esistenziale e globale, come sta accadendo nella società d'oggi.

Ricordo che quell'opera mi affascinò dal primo istante, anche se ancora non comprendevo ne' potevo capire al meglio il suo possibile significato.

Lo spazio dell'Arsenale in cui entrammo, la mia compagna, il mio migliore amico ed io, era molto buio e gli occhi ci misero qualche minuto ad abituarsi.

Ci addentrammo in una selva di travi, con simboli di qualche rimando al mare o all'oceano sparsi qua e là, delle piccole statue appese; solo dopo ho scoperto che quel primo spazio era suddiviso come le navate di una chiesa. C'era un percorso e il seguirlo ci portò ad una grande scalinata. Una volta saliti in cima lo spettacolo era alle nostre spalle.

Quindi ci voltammo: sopra la selva di travi si apriva un secondo livello inaccessibile, che si poteva solo osservare. In un primo momento ricordo che la sensazione fu di spaesamento, non capivo esattamente cosa stavo guardando; davanti a me vedevo uno spazio gigantesco, mastodontico oserei dire. Le emozioni, le prime impressioni, erano stupore e quella strana sensazione che provi quando sei davanti ad un bellissimo ed immenso paesaggio, qualcosa che si potrebbe definire come sublime. Ma c'era nell'aria anche qualcosa di estremamente oscuro.

Rimasi fermo per qualche secondo, forse qualche minuto, intento a cercare di capire cosa stessi guardando: era forse un'immagine, uno schermo? C'era qualcosa nello spazio che ti faceva sentire piccolo e spaesato, e c'era di più, c'era qualcosa alla fine, o in quella che sembrava la fine di quello che stavo guardando, che non riuscivo a cogliere ne' a capire cosa fosse, qualcosa di appena luminoso che qua è la si spostava sullo sfondo.

Solo dopo qualche momento ipotizzammo che ciò che stavamo guardando era un'immensa distesa d'acqua: il secondo livello era praticamente una grossa piscina, ma io non ne ero certo. L'acqua non si muoveva, dovevo toccarla, dovevo capire; era vietato oltrepassare una certa barriera e ogni tanto una guardia passava di lì a controllare che nessuno si avvicinasse troppo. Nel momento propizio decisi di spingermi fin dove potevo, di allungare il braccio e di toccare, e finalmente potei accertarmi dell'esattezza della nostra ipotesi: sotto le mie dita l'acqua formò cerchi concentrici e solo allora fu chiaro che l'immensa distesa d'acqua giocava il ruolo di un gigantesco specchio che rifletteva l'intera struttura sovrastante dell'Arsenale.

L'acqua rifletteva e ingigantiva la messa in scena di questo palcoscenico preparato ad hoc dall'artista.

Rammento che quell'immagine ci ricordò certe scene in stile fantascientifico, alla Giger se vogliamo, di un futuro sporco e pieno d'insidie.

Credo fossimo tutti comunque sbalorditi anche dopo aver svelato l'arcano: c'era qualcosa di magico che scaturiva da quella visione, ma c'era ancora qualcosa che non comprendevamo, c'era ancora un mistero da svelare... che cos'erano quelle lucine che vedevamo muoversi in quello che apparentemente sembrava la fine di quello spazio?

Ci volle un po' per rendersene conto, ma alla fine fu chiaro: all'estremo opposto dello spazio c'erano degli specchi. Specchi che riflettevano il pubblico, specchi che riflettevano la nostra stessa immagine e i nostri movimenti; i bagliori non erano altro che le luci dei telefonini di chi ogni tanto fotografava.

Nel corso degli anni ho capito che sono sempre stato, prima inconsciamente e poi più consciamente, affascinato dagli specchi, dai riflessi, dalle distorsioni, dal tema del doppio e dell'identità, in ultimo dagli schermi; chi e che cosa sono, come sono fatto se la mia visione è sempre distorta e mai in diretta?

Negli anni accademici ho letto un libro che più di altri ha lasciato in me una traccia indelebile, un saggio in parte empirico e in parte sentimentale, un saggio sulla fotografia, un saggio intitolato "La camera chiara" di R. Barthes.

Un episodio narrato nel testo più di altri toccò prima il mio intelletto, poi soprattutto il mio cuore, la mia anima, ed è appunto quando Barthes racconta questa ricerca (quasi disperata direi io)  dell'immagine della Madre perduta poco tempo prima[2].

Lo scrittore era circondato da foto di lei, ma nessuna gli sembrava davvero lei; ricordo che leggevo e non comprendevo come fosse possibile che non riconoscesse sua madre in nessuna immagine!

Ogni fotografia era passata al setaccio ma soprattutto in quelle più recenti Barthes non riusciva a riconoscerla, finché non trovò un'immagine di lei giovane, e nei suoi occhi di bambina ritrovò l'incanto:  giunse al dunque, giunse al PUNCTUM come lo avevo definito lui, ovvero quel particolare improvviso che esplode riempiendo la fotografia, rilasciando quella pace e convinzione di aver ritrovato quella parte più intima di sua madre che solo lui poteva conoscere.

Il Punctum[3] è quel qualcosa che la visione dell'osservatore aggiunge alla foto, ma che è già nella foto, come un'esplosione amorosa che deflagra nella consapevolezza di aver trovato l'amato.

Forse se avessi cercato ancora meglio, dico forse, mi sarei visto davvero quel giorno in quell'opera fatta di riflessi, o forse si trattò solo di un bellissimo miraggio...tutta quell'acqua amplificava illusoriamente le dimensioni e i volumi del padiglione, generando un'immagine al contempo cristallina, vivida, effimera e sognante.

Lo sdoppiamento degli spazi dell'opera, quel primo e secondo livello, suggerisce che uno dei possibili temi sia sicuramente il doppio[4], ma sembra esserci anche un rimando dato dal titolo tra parentesi dell'opera a un'altra opera letteraria di de Martino, La fine del mondo[5], libro nel quale de Martino descrive l'antico mito romano del mundus Cereris, secondo il quale nei pressi di Roma si trovava una fossa che fungeva da soglia tra due mondi, quello inferiore connesso agli inferi e quello superiore connesso alla realtà terrena e alla volta celeste. Tre volte l'anno in un rito cerimoniale chiamato mundus patet, la fossa si apriva e si mettevano in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti.

Dunque quest'opera, viva nel mio ricordo, discorre alla pari con un'altra immagine di questi giorni di crisi mondiale: abbiamo superato anche la data in cui la Chiesa, nella figura del Papa, ci ha impartito una benedizione straordinaria, un Urbi et Orbi in una piazza San Pietro desolata.

La scelta scenica del Papa di scendere nella piazza deserta ci suggerisce un messaggio di vicinanza, nonostante la piazza non sia gremita come al solito, bensì vuota: scena simbolica, forte e al contempo intima, come a dire che il mondo c'è anche se non è lì. Una figura piccola quella del Papa, che nel classico abito bianco si staglia nel buio di un sera che cala su San Pietro.

Questa volta l'idea di una piazza concepita da Bernini come un abbraccio ai fedeli non è possibile, così essa ci lascia un'immagine paradossalmente di piccolezza, di debolezza, sottolineata dalle parole stesse del Papa: "non ci siamo fermati davanti alla tua chiamata, non ci siamo svegliati davanti alle guerre e alle ingiustizie nel mondo, non abbiamo ascoltato le grida dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo continuato impassibili, pensando al mantenerci sempre sani in un mondo malato"[6].

Così il Papa ha ricordato come l'uomo si sia sentito sempre forte e capace di ogni cosa, affamato dalla ricchezza, assorbito dal materialismo e frastornato dalla fretta.

La prima vera Chiesa e palcoscenico dell'Uomo è la Natura, lì dove abbiamo imparato a godere di ogni bellezza, lì dove in sgomento ci poniamo dinanzi al Sublime.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Articolo di Domusweb, Il Mondo magico di Cecilia Alemani, su Domusweb.it, consultabile su: https://www.domusweb.it/it/arte/2017/05/25/il_mondo_magico_di_cecilia_alemani.html

[2] Di questo episodio contenuto nel testo di R. Barthes, La camera chiara - Nota sulla fotografia, purtroppo non posso ora dare i riferimenti (oggi è il 6/05/2020), in quanto io attualmente vivo in Spagna ma il grosso dei miei libri è in Italia (una delle cose che mi manca di più in questi giorni di quarantena).

[3] In ogni caso per avere delucidazioni su La camera chiara consiglio la lettura del riassunto consultabile su: https://www.riccardoperini.it/roland-barthes-la-camera-chiara/

[4] Scheda sull'opera di G. Andreotta Calò, "Senza titolo (La fine del mondo)", consultabile su: http://www.ilmondomagico2017.it/artisti/giorgio-andreotta-calo/

[5] Ivi

[6] Articolo de Elmundo.es, El Papa Francisco imparte una bendición 'Urbi et Orbi' extraordinaria en una plaza de San Pedro vacía: "Estamos todos en la misma barca", consultabile su: https://www.elmundo.es/internacional/2020/03/27/5e7e3e4bfdddff231e8b4643.html

bottom of page